Archivio della categoria: Memento – Personaggi

Francesco Cecchin – Lui Vive, Lui combatte!

Siamo nel maggio del 1979 e la tensione nella zona di Roma Est è piuttosto alta a causa delle continue provocazioni perpetrate da aderenti al PCI del quartiere ai danni di militanti del Fronte della Gioventù e delle loro sezioni: attentati incendiari, minacce varie ed azioni di disturbo alla normale attività politica.

Il tardo pomeriggio del 28 maggio quattro ragazzi del F.d.G., tra cui Francesco Cecchin, si recano in Piazza Vescovio per attaccare manifesti. Vengono però subito notati da un gruppo di militanti della sezione del PCI di Via Monterotondo, che si danno subito da fare per ostacolare l’affissione. Un militante del Fronte cerca di impedire la provocazione, ma viene circondato dagli attivisti del PCI guidati da Sante Moretti, che si rivolge minacciosamente ai ragazzi del F.d.G. A Francesco dice espressamente: “Tu stai attento, che se poi mi incazzo ti potresti fare male”. Lo stesso Moretti, al tentativo dei giovani del Fronte di avvertire la polizia, tranquillizza ai suoi compagni dicendo: “Non vi preoccupate compagni, ho già avvertito il dott. Scalì (commissario di zona). E’ tutto a posto”.


RASSEGNA STAMPA IL FUMETTO FOTO

Il fumetto sull’assassinio di Francesco Cecchin è stato realizzato dalla sezione del FdG del Tuscolano sulla base del dossier raccolto nei giorni successivi il tragico agguato compiuto da attivisti comunisti. E’ uscito come supplemento al n. 21 di gennaio-febbraio 1980 di Dissenso

Imperium – Sera di Giugno


Quella stessa sera Francesco Cecchin esce di casa (Via Monte delle Gioie) insieme alla sorella per fare una passeggiata. Verso le 24.15, mentre i due ragazzi sono fermi davanti all’edicola di Piazza Vescovio, spunta una Fiat 850 bianca, che compie una brusca frenata davanti a loro. Dall’auto scende un uomo, che urla all’indirizzo di Francesco: “…E’ lui, è lui, prendetelo!”. Intuendo il pericolo e probabilmente riconoscendo l’aggressore, Francesco fa allontanare la sorella e corre in direzione di via Montebuono, inseguito dagli occupanti della macchina che nel frattempo il guidatore aveva spostato all’imboccatura della stessa via Montebuono.

La sorella intanto si getta vanamente al loro inseguimento urlando: “Francesco, Francesco!”. Le sue grida vengono udite da un amico di Francesco che, sceso in strada, nota un uomo darsi alla fuga verso via Monterotondo e qui salire sulla Fiat 850 bianca, che si allontana velocemente. Dopo aver telefonato alla polizia, il giovane viene raggiunto da un inquilino dello stabile di via Montebuono 5, che lo informa della presenza, sul suo terrazzo sottostante di cinque metri il piano stradale, di un ragazzo che giace esanime al suolo. Il giovane, giunto sul posto, riconosce in quel ragazzo Francesco Cecchin.

Il corpo è in posizione supina ad una distanza di circa un metro e mezzo dalla base del muro e perde sangue da una tempia e dal naso. Nella mano sinistra stringe ancora un mazzo di chiavi, di cui una, che spunta dalle dita, è storta; in quella destra c’è un pacchetto di sigarette. Tra i giornali dei giorni successivi solo il Tempo e il Messaggero riportano la notizia. La versione dei fatti fornita dalla stampa è quella dell’incidente, della tragica fatalità. Uguale versione viene diffusa dalla RAI. Tutti, inquirenti compresi, si affrettano a sostenere tale ipotesi. Secondo alcuni Francesco, “impaurito”, avrebbe scavalcato il muretto del cortile senza rendersi conto che al di sotto c’era un salto di cinque metri. Altri hanno addirittura negato che vi fosse stata una colluttazione tra il giovane e i suoi aggressori.

Mentre alcuni militanti del Fronte vegliano Francesco in coma, altri, di fronte all’inerzia degli inquirenti, cominciano a fare indagini private: vengono così a sapere che il ragazzo conosceva molto bene quel palazzo e il suo cortile, in quanto lì abitava un suo amico. Inoltre il corpo è stato trovato in posizione supina anziché in quella di pancia, tipica di chi si lancia autonomamente. L’ipotesi che Francesco sia stato gettato di peso viene poi avvalorata da altri due particolari: il riscontrato trauma cranico, sintomo che il peso dell’impatto al suolo si è scaricato tutto sulla testa, e il fatto che questa si trovi più vicina al muro rispetto ai piedi. La chiave piegata tra le dita di una mano e il pacchetto di sigarette nell’altra sono infine una prova ulteriore del fatto che gli aggressori hanno gettato il corpo di Francesco, già esanime, al di là del muretto che delimita il terrazzo: chi pensa di lanciarsi oltre un ostacolo cerca, infatti, di avere le mani libere. Che prima di questo tragico epilogo ci sia stata una violenta colluttazione è dimostrato dalla chiave piegata rinvenuta tra le dita di Francesco, sicuramente usata come arma di difesa contro i suoi assassini. Anche le ferite e lesioni riscontrate su tutto il corpo (echimosi e graffi sulle braccia e sul collo, ematoma all’occhio sinistro, spappolamento della milza), confermano la tesi dell’aggressione. A renderla inconfutabile vi sono poi altri due importanti elementi: le tracce di sangue trovate tra il cancello e gli scalini vicini al parapetto del cortile, lunghe alcuni metri fino al bordo del muretto (indice che il corpo di Francesco è stato prima trascinato e poi sollevato di peso a causa degli scalini), e la dichiarazione resa da alcuni testimoni, che affermano di aver udito “le grida del ragazzo, poi alcuni attimi di silenzio ed infine un forte tonfo, non accompagnato da alcun grido”.

Il 16 giugno, dopo diciannove giorni di coma, Francesco muore. Da allora negligenza, indifferenza, omertà. Nessun colpevole è mai stato condannato per questo crimine: l’unico imputato, l’attivista comunista Marozza, fu, infatti, assolto. La sentenza parlò di “omicidio volontario ad opera di ignoti” e di “omissione di atti d’ufficio” per tutti gli inquirenti che non svolsero indagini: c’è stato un assassinio dunque, e di esso si sono resi complici coloro che avrebbero dovuto fare giustizia e non l’hanno fatto.


RACCONTATE CHE LOTTAVA PER UN POPOLO, RACCONTATE LO SCHIANTO DEL SUO CORPO,

RACCONTATE DEL SANGUE SUL SELCIATO, RACCONTATE IL MORIRE A 17 ANNI.

URLATE A CHI NON VUOLE SENTIRE!


Francesco Mancinelli: Generazione 78

 

Marilena Grill

LA GIOVINEZZA SPEZZATA

 

“Sono figlia unica. Mia madre è vedova da quando avevo quattro anni, mio padre lo ricordo appena! La mamma non ha fatto nulla per ostacolare questa mia scelta ma ora trepida per me. Vedi questa lapide con i nomi degli studenti caduti in guerra? Al più finirò col mio nome in questa fila e sarebbe una grande soddisfazione averlo fatto per l’Italia”

(Le parole di Marilena rievocate dal ricordo dell’ausiliaria Rosilda Fanolla tratta da “Per Marilena Grill”)

 

Marilena Grill, nata il 26 settembre 1928, di origine valdese, viveva a Torino dove nel 1945 frequentava il liceo D’Azeglio. 

La sua unica colpa era quella di aver scelto “la parte sbagliata” ed essersi schierata per l’onore d’Italia nelle file del Servizio Ausiliario della Repubblica Sociale. Il 28 aprile – a guerra finita – venne prelevata, dalla sua abitazione torinese, da quattro partigiani che la portarono alla caserma Valdocco dove dovette subire umiliazioni e sofferenze per 5 giorni, prima che i suoi aguzzini  la uccidessero, con un colpo alla nuca  in Via maria Ausiliatrice angolo C.so Valdocco la notte fra il 2 e il 3 maggio 1945.

Quando Marilena fu assassinata aveva appena 16 anni e le sue parole rievocate dal ricordo di Rosilda Fanolla sembrano quasi profetiche, ma purtroppo a lei non è stato tributato l’onore di avere il nome riportato ad imperituro memento, ma è stata consegnata all’oblio dall’infamia e dalla vigliaccheria di chi non ha ne valori ne ideali. Negli anni a cavallo tra la fine dei ’90 e il primo decennio del 2000, l’Associazione Nazionale Caduti e Dispersi della R.S.I. ha richiesto alle istituzioni territoriali di poter posare una targa in suo ricordo nel luogo dove fu assassinata. Ma il comune, nonostante anche gli interventi dei consiglieri locali di Alleanza Nazionale e della Lega Nord, non ha mai dato i permessi. Purtroppo Marilena, come  Giuseppina Ghersi, e tanti altri morti durante e dopo la fine della guerra civile, sono morti scomodi per una certa parte politica che preferisce tenerli nell’oblio. Perché se venissero riscoperte certe storie, porterebbero a galla una violenza ed una ferocia che poco avevano a che fare con una lotta di liberazione e che andrebbero ad incrinare il mito di una certa resistenza.

Vogliamo ricordare la storia di Marilena perché il suo martirio non venga dimenticato, nella speranza che possa un giorno servire a ristabilire la verità storica, dando giustizia a lei e ai tanti altri che sono stati trucidati in quel tragico 1945, per la sola colpa di essersi schierati per l’onore d’Italia.

–    LA STORIA

–    DOCUMENTAZIONE STORICA:
       Richiesta della targa commemorativa   –   L’Ausiliaria e il partigiano

–    RASSEGNA STAMPA:
       Ricordi e citazioni   –   Gli Anniversari   –   L’Intitolazione e la Targa   –   L’Ausiliaria e il partigiano

–    BIBLIOGRAFIA

–    MATERIALE STORICO

–    LA TOMBA


Queste pagine sono dedicate alla memoria di Rosilda Fanolla che ci ha lasciati il 6 giugno 2015. Camerata di Marilena nel Servizio Ausiliario Femminile della R.S.I., per anni si adoperò per ottenere dal comune il permesso per la posa di una targa commemorativa nel luogo dove Marilena fu uccisa, ma che nonostante i decenni passati le amministrazioni hanno sempre negato. 
A lei che conobbe Marilena Grill nei tragici giorni del 1945, camerate di un’idea separate dall’odio dei vigliacchi.
Nel suo ricordo e nel ricordo delle sue battaglie vogliamo contribuire a mantenere viva la storia di Marilena Grill attraverso queste pagine.

Giuseppe Librio

Il 3 maggio del 1945 le truppe titine occupano Fiume. Dal primo giorno dell’occupazione Fiume fu sottoposta a un regime di governo militare che si protrasse per quasi due anni. In questo periodo avvenne una serie di epurazioni e di omicidi mirati a eliminare non solo le persone compromesse col fascismo e con gli occupatori tedeschi, ma anche ogni possibile oppositore al progetto di annessione della città alla Jugoslavia, nonché all’instaurazione di un regime marxista ispirato apertamente all’URSS di Stalin. 

La maggioranza della popolazione italiana, dopo l’occupazione slava, iniziò un lento e straziante esodo che durò fino al 1948. Questa parte della popolazione fiumana subì l’onta dell’occupazione con rassegnata fierezza, perchè poco potevano contro l’odio e la barbarie delle orde comuniste di Tito. Ma nonostante tutto ci fu anche chi in qualche modo cercò di ribellarsi, sfidando la proterva oppressione degli occupanti. Tra tutti spicca la figura di un giovane diciottenne, Giuseppe Librio, che sacrificò la sua giovane vita in un atto d’amore per la Patria ormai perduta.

Infatti il 16 ottobre del 1945, per testimoniare il dolore dell’occupazione dei cittadini italiani, il giovane fiumano decise di ammainare, l’odiata bandiera slava che sventolava da un pennone di Piazza Dante. Ma il gesto gli costò la vita: scoperto dalle milizie titine fu colpito da diversi colpi e gettato, ancora agonizzante, tra le rovine del molo di Stocco dove venne ritrovato il giorno successivo.

Un sacrificio per la patria, un gesto d’amore che rimane a imperituro memento per chi ancora crede nella patria.


Vogliamo ricorda la figura di Giuseppe Librio anche con la canzone “Ribelle per fede”, scritta dai Decima Balder nel 2007 nella loro prima versione acustica e nell’interpetazione eseguita da Skoll.