Rassegna Stampa

Mi chiamavano il “Faber” di destra, ma la musica non ha appartenenza

Testata: IL GIORNALE D'ITALIA (online)

Data:12 marzo 2017
Autore: Fabrizio Marzi
Tipologia: Specifico

Locazione in archivio

Stato:Pdf Rivista completa
Locazione: ASDI-Archivio digitale RS,Il Giornale d'Italia,IlGiornaledItalia_20170312

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Correva l’anno 1969 quando eseguii per la prima volta una canzone di Fabrizio De André in pubblico. Il palco era quello del cinema/teatro della mia parrocchia. Interpretai il “corale recitativo”, uno dei pezzi più struggenti di De André, che faceva parte dell’album “Tutti morimmo a stento”
All’incirca dieci anni più tardi realizzai, con Walter Jeder, l’LP Zoo, dopo il quale critica ed estimatori individuarono nella mia voce diverse analogie stilistiche e timbriche con Faber, tanto da attribuirmi l’etichetta di De André nero. Fin qui la mia piccola/grande esperienza cantautoriale, che non sta a me giudicare.
Non posso negare quanto Fabrizio De André abbia influenzato nel bene e nel male la mia storia personale e artistica, come credo anche quella di mio cugino Walter, autore dei testi delle nostre canzoni. Ricordo infatti nitidamente, in occasione di uno dei nostri raduni di famiglia, la sua emozione nel mostrami la collezione di LP di Fabrizio dove, tra i libri di Pound, Joyce, Eliot, Céline, La Rochelle, Marinetti e Pirandello spiccavano: “Tutti morimmo a stento”, “Non al denaro, non all’amore né al cielo” e soprattutto il contestatissimo album, poi giustamente rivalutato, “Storia di un impiegato”.
E oggi? Oggi io e Walter ci siamo ritrovati a reinterpretare e, per certi versi, a riscoprire alcuni aspetti di Fabrizio De André attraverso una chiave di lettura differente, più profonda e, per qualche verso, illuminante, con le pagine dell’ultima fatica editoriale di Miro Renzaglia: “Maledetti poeti” (Ed. Circolo Proudhon 2016).
In molti hanno cercato di attribuire a De André (così come hanno cercato di fare con Lucio Battisti) un’appartenenza politica: era di sinistra o di destra? Facendo così però, come ben sottolinea Renzaglia nel suo libro, è come se si volesse attribuire ad autori come Aristofane, Jacopone da Todi, Cecco Angiolieri, Françoise Villon, Edgar Lee Masters, Oswald De Andrade, Olindo Guerrini, Riccardo Mannerini, Pier Paolo Pasolini, Fernanda Farias de Albuquerque o Álvaro Mutis un’appartenenza ideologica o peggio partitica.
Per quanto ci riguarda, un conto è “sentirsi” fascisti e vivere quotidianamente ciò che riteniamo uno stile di vita di cui andar fieri, altro è cercare di collocare politicamente Fabrizio De André secondo il nostro sentire comune.
Fabrizio De André, così come inconsapevolmente avevo intuito fin da quella mia prima incerta e gracile interpretazione giovanile, è tra coloro che si sono liberati degli stereotipi, dei luoghi comuni, delle etichette che influenzano il nostro agire quotidiano e per questo viaggiano… in direzione ostinata e contraria.


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