Epitaffio per un imbecille

“E a proposito di padri e di proiezioni nella vita famigliare, stiamo in guardia, stiamo in guardia perché è in agguato la televisione, le pantofole e io già sono in giacca, cravatta e panciotto, sono su una strada pericolosa, me è un po’ un problema che si pone a tutti noi, perché attenzione la Giovinezza è una cosa bellissima, poi finisce e ci sono delle altre fasi della vita e qualche volta in questi fasi si è vincenti, si riesce a diventare vecchi decorosamente altre volte si rimminchionisce irrimediabilmente. E allora abbiamo fatto una canzone molto cattiva, che appunto il titolo dice tutto “Epitaffio per un imbecille” è una canzone che è un po’ amara perché gli imbecilli non sono sempre gli altri, ognuno di noi è portato per presunzione a ritenere che i peggiori siano sempre i vicini di casa, mai se stessi. E allora ci serve sempre da cartina tornasole per vedere a che punto ci siamo rimminchioniti e nell’ascoltare questa canzone facciamoci un esame di coscienza, anche se è un concetto un po’ strano per noi, a volte così paganeggianti, facciamocelo questo esamino di coscienza e vediamo se siamo diventati imbecilli anche noi o se rischiamo di diventarlo.”

Con queste parole, Walter Jeder, il 31 marzo 1980 a Milano al concerto “E’ tutta un’altra musica” presentava la canzone “Epitaffio” eseguita da Fabrizio Marzi.

 

La canzone all’epoca rimasta inedita, verrà pubblicata solo 1997 nella raccolta “Alzo Zero“. Il brano nasce dal riadattamento che fece Walter Jeder di un testo pubblicato su un volantino, che s’intitolava “Epitaffio per un imbecille”. Un titolo al vetriolo per un testo lucido e pungente scritto sul finire degli anni ’60 del 900, che percorre la vita piatta di un uomo qualunque, che “non ha mai rotto un lampione con una sassata, né un pregiudizio con libera volontà” e che quando “è scomparso dal mondo non se ne è accorto nessuno”.

Un testo che fa impietosamente capire che a volte, anche se si crede di vivere una vita densa, piena di impegni, non vuole dire che si stia vivendo davvero. E fermandosi un attimo a pensare, ci si potrebbe rendere conto di vivere una vita vuota, omologata, incastonata in un sistema standardizzato in cui si pensa di essere protagonisti e si è invece delle marionette perfettamente allineate al pensiero unico del “politicamente corretto”. Una vita senza valori, senza sogni, senza emozioni, piatta come l’elettrocardiogramma di un morto! 

E allora leggiamo questo testo e usiamolo come una cartina tornasole, facciamolo quest’esame di coscienza e per tenere sempre vivi i nostri sogni, per coltivarli e difenderli ogni giorno, per non cedere alle lusinghe della quotidianità, della vita tranquilla, del chi te lo fa fare.

Ricordiamoci, “senza inseguire il mito della sopravvivenza, di amare più il pericolo e un poco meno la prudenza” (1) .


Aveva quel genere di onestà schifosa, che non costa niente ed evita grane con il capoufficio, i vicini, la questura ed anche con il Padreterno, visto che è morto con tutti i sacramenti di Santa Madre Cattolica Apostolica Romana Ecclesia.
Da ragazzo non ha mai rotto un lampione con una sassata, né un pregiudizio con libera volontà.
Andava a scuola e studiava poco, ma strappava sufficienza perché, per ruffianeria congenita, credeva veramente alle idiozie dei suoi professori.
Come tutti gli ignoranti aveva il fanatismo della scienza.
Dopo la pubertà fu scosso da un fremito di libidine che fu l’unica cosa notevole della sua vita, sebbene, per lungo tempo, covasse solitaria.
Quando poi trovò una donna, sembrò, che un alone di romantica poesia, fosse divenuto persino intelligente.
Ma poi si impiegò, si sposò, ed ebbe figli.
La domenica andava a prendere la granita di caffè con la moglie, e rimproverava i bambini perché non stavano mai fermi.
In politica detestava gli estremismi, in arte era conservatore. Soleva ripetere che il jazz è solo frastuono, e si professava cultore della musica classica: infatti l’unica volta che andò ad un concerto wagneriano, si addormentò.
I giorni che visse si somigliavano tutti, scanditi da una noia che nemmeno giungeva a ferirlo.
E gli anni somigliavano agli anni.
Invecchiando trasmise il suo umore acido alla moglie e ai figli.
Adesso che è scomparso dal mondo non se ne è accorto nessuno.
Ma noi lo abbiamo saputo lo stesso e siamo venuti a ridere sulla sua tomba; abbiamo bevuto molto vino, come si conviene per una festa.
Con la solennità degli ubriachi abbiamo giurato di non finire come lui, di non abbandonare i sogni che ci fanno giovani, né gli ideali che ci fanno liberi; in ricchezza o in povertà, finchè morte non sopravvenga.
Amen.

Volantino del 
Gruppo Gioventù Primula
“La spada e la rosa” opuscolo di Europa Civiltà

 

(1) dalla canzone “A Carlo” degli Amici del Vento


Francesco Cecchin – Lui Vive, Lui combatte!

Siamo nel maggio del 1979 e la tensione nella zona di Roma Est è piuttosto alta a causa delle continue provocazioni perpetrate da aderenti al PCI del quartiere ai danni di militanti del Fronte della Gioventù e delle loro sezioni: attentati incendiari, minacce varie ed azioni di disturbo alla normale attività politica.

Il tardo pomeriggio del 28 maggio quattro ragazzi del F.d.G., tra cui Francesco Cecchin, si recano in Piazza Vescovio per attaccare manifesti. Vengono però subito notati da un gruppo di militanti della sezione del PCI di Via Monterotondo, che si danno subito da fare per ostacolare l’affissione. Un militante del Fronte cerca di impedire la provocazione, ma viene circondato dagli attivisti del PCI guidati da Sante Moretti, che si rivolge minacciosamente ai ragazzi del F.d.G. A Francesco dice espressamente: “Tu stai attento, che se poi mi incazzo ti potresti fare male”. Lo stesso Moretti, al tentativo dei giovani del Fronte di avvertire la polizia, tranquillizza ai suoi compagni dicendo: “Non vi preoccupate compagni, ho già avvertito il dott. Scalì (commissario di zona). E’ tutto a posto”.


RASSEGNA STAMPA IL FUMETTO FOTO

Il fumetto sull’assassinio di Francesco Cecchin è stato realizzato dalla sezione del FdG del Tuscolano sulla base del dossier raccolto nei giorni successivi il tragico agguato compiuto da attivisti comunisti. E’ uscito come supplemento al n. 21 di gennaio-febbraio 1980 di Dissenso

Imperium – Sera di Giugno


Quella stessa sera Francesco Cecchin esce di casa (Via Monte delle Gioie) insieme alla sorella per fare una passeggiata. Verso le 24.15, mentre i due ragazzi sono fermi davanti all’edicola di Piazza Vescovio, spunta una Fiat 850 bianca, che compie una brusca frenata davanti a loro. Dall’auto scende un uomo, che urla all’indirizzo di Francesco: “…E’ lui, è lui, prendetelo!”. Intuendo il pericolo e probabilmente riconoscendo l’aggressore, Francesco fa allontanare la sorella e corre in direzione di via Montebuono, inseguito dagli occupanti della macchina che nel frattempo il guidatore aveva spostato all’imboccatura della stessa via Montebuono.

La sorella intanto si getta vanamente al loro inseguimento urlando: “Francesco, Francesco!”. Le sue grida vengono udite da un amico di Francesco che, sceso in strada, nota un uomo darsi alla fuga verso via Monterotondo e qui salire sulla Fiat 850 bianca, che si allontana velocemente. Dopo aver telefonato alla polizia, il giovane viene raggiunto da un inquilino dello stabile di via Montebuono 5, che lo informa della presenza, sul suo terrazzo sottostante di cinque metri il piano stradale, di un ragazzo che giace esanime al suolo. Il giovane, giunto sul posto, riconosce in quel ragazzo Francesco Cecchin.

Il corpo è in posizione supina ad una distanza di circa un metro e mezzo dalla base del muro e perde sangue da una tempia e dal naso. Nella mano sinistra stringe ancora un mazzo di chiavi, di cui una, che spunta dalle dita, è storta; in quella destra c’è un pacchetto di sigarette. Tra i giornali dei giorni successivi solo il Tempo e il Messaggero riportano la notizia. La versione dei fatti fornita dalla stampa è quella dell’incidente, della tragica fatalità. Uguale versione viene diffusa dalla RAI. Tutti, inquirenti compresi, si affrettano a sostenere tale ipotesi. Secondo alcuni Francesco, “impaurito”, avrebbe scavalcato il muretto del cortile senza rendersi conto che al di sotto c’era un salto di cinque metri. Altri hanno addirittura negato che vi fosse stata una colluttazione tra il giovane e i suoi aggressori.

Mentre alcuni militanti del Fronte vegliano Francesco in coma, altri, di fronte all’inerzia degli inquirenti, cominciano a fare indagini private: vengono così a sapere che il ragazzo conosceva molto bene quel palazzo e il suo cortile, in quanto lì abitava un suo amico. Inoltre il corpo è stato trovato in posizione supina anziché in quella di pancia, tipica di chi si lancia autonomamente. L’ipotesi che Francesco sia stato gettato di peso viene poi avvalorata da altri due particolari: il riscontrato trauma cranico, sintomo che il peso dell’impatto al suolo si è scaricato tutto sulla testa, e il fatto che questa si trovi più vicina al muro rispetto ai piedi. La chiave piegata tra le dita di una mano e il pacchetto di sigarette nell’altra sono infine una prova ulteriore del fatto che gli aggressori hanno gettato il corpo di Francesco, già esanime, al di là del muretto che delimita il terrazzo: chi pensa di lanciarsi oltre un ostacolo cerca, infatti, di avere le mani libere. Che prima di questo tragico epilogo ci sia stata una violenta colluttazione è dimostrato dalla chiave piegata rinvenuta tra le dita di Francesco, sicuramente usata come arma di difesa contro i suoi assassini. Anche le ferite e lesioni riscontrate su tutto il corpo (echimosi e graffi sulle braccia e sul collo, ematoma all’occhio sinistro, spappolamento della milza), confermano la tesi dell’aggressione. A renderla inconfutabile vi sono poi altri due importanti elementi: le tracce di sangue trovate tra il cancello e gli scalini vicini al parapetto del cortile, lunghe alcuni metri fino al bordo del muretto (indice che il corpo di Francesco è stato prima trascinato e poi sollevato di peso a causa degli scalini), e la dichiarazione resa da alcuni testimoni, che affermano di aver udito “le grida del ragazzo, poi alcuni attimi di silenzio ed infine un forte tonfo, non accompagnato da alcun grido”.

Il 16 giugno, dopo diciannove giorni di coma, Francesco muore. Da allora negligenza, indifferenza, omertà. Nessun colpevole è mai stato condannato per questo crimine: l’unico imputato, l’attivista comunista Marozza, fu, infatti, assolto. La sentenza parlò di “omicidio volontario ad opera di ignoti” e di “omissione di atti d’ufficio” per tutti gli inquirenti che non svolsero indagini: c’è stato un assassinio dunque, e di esso si sono resi complici coloro che avrebbero dovuto fare giustizia e non l’hanno fatto.


RACCONTATE CHE LOTTAVA PER UN POPOLO, RACCONTATE LO SCHIANTO DEL SUO CORPO,

RACCONTATE DEL SANGUE SUL SELCIATO, RACCONTATE IL MORIRE A 17 ANNI.

URLATE A CHI NON VUOLE SENTIRE!


Francesco Mancinelli: Generazione 78

 


Le armi di Europa Civiltà

Riportiamo di seguito il brano “Le armi di Europa Civiltà“, scritto da Pino Tosca nel quaderno di Europa Civiltà.

Nel testo sono sintetizzate le vere armi (quelle interiori, quelle valoriali) con cui il militante, il soldato politico deve prima misurare se stesso e poi usare nelle sue battaglie, nella sua lotta. Oggi come quasi mezzo secolo fa, quando queste parole furono scritte. Ogni tempo ha le sue difficoltà e i suoi problemi, ma sapendo riconoscere i giusti valori, si potrà essere sempre d’esempio

Un ringraziamento a Davide Tosca che ci ha fatto conoscere questo scritto del padre, dandoci quindi l’opportunità di farlo conoscere.


Io quale appartenente al Movimento, sono un combattente. È mio dovere di combattente tener sempre presenti i pericoli cui vado incontro e vincerli con le mie armi. Io stesso sono il forgiatore di esse ed ogni giorno, minuto per minuto, provandole le rafforzo.

LA VOLONTÀ

sarà la mia spada. L’affilo ogni giorno di più, provandola continuamente su me stesso. Senza di lei nulla potrò compiere.

LA FEDELTÀ sarà il mio scudo. Fedeltà alla Lotta ed alla Vittoria mia e del Movimento. Tenendo sempre imbracciato il mio scudo, sarò un pilastro inattaccabile.
LA DISCIPLINA sarà il mio elmo. Essa, all’inizio, è la parte più gravosa della mia armatura; quanto più riuscirò a renderla ferrea tanto più essa mi salverà dai fendenti degli inutili “perché”.
LA LEALTÀ è il mio cavallo. Contro le sabbie mobili della falsità, dell’ipocrisia, del tradimento, mi terrà saldo in arcioni dimostrando la massima lealtà con me stesso e con tutti.
L’ENTUSIASMO sono i miei speroni. Solo con esso potrò lanciarmi all’attacco sicuro di vincere.
L’ONORE è la mia insegna. Debbo tenerla sempre alta, e difenderla incessantemente per tutta la mia vita, perché una volta perduto non lo ritroverò mai più.

Ogni minuto è il mio turno di guardia.

VINCENDO ME STESSO CONQUISTERÒ LA VITTORIA.

ESSENDO UN ESEMPIO CONQUISTERÒ IL MONDO


La lotta può essere dura e difficile e ci sono momenti in cui anche la speranza sembra svanire ed è allora che bisogna “affilare le armi” dei nostri valori e continuare ad andare avanti, continuare ad essere esempio nel nulla che avanza. Ce lo ricorda la canzone scritta da Pino Tosca e musicata da Carmine Asunis:

LA TEMPESTA

versione originale cantata da Carmine Asunis (da una registrazione dei primi anni ’70)

 

versione cantata dal gruppo FEANOR a Rieti il 18 maggio 2019 

 


Grande successo della mostra fotografica sul muro di Berlino

“Se il paradiso socialista se n’è andato alla malora, riscrivon la storia arroganti più di allora
La falce e il martello son nel mondo che c’era, anche il rosso è più rosa sul far della sera”
(Berlino – Amici del Vento)

Il 9 novembre 1989 cadeva il muro di Berlino, un evento epocale che ha segnato la fine della cortina di ferro e la caduta del Comunismo.

Nel 30° anniversario, per celebrare quell’evento epocale che segnò la caduta del comunismo e la fine della guerra fredda, ma anche per ricordare quello che il muro di Berlino rappresentò, Guido Giraudo ha realizzato una mostra fotografica che ne ripercorre la storia attraverso fotografie d’epoca corredate da didascalie e da note storiche. 

La mostra è stata esposta in contemporanea a Busto Arsizio, Torino e Sanremo.

In entrambe le edizione, nel corso dell’inaugurazione, è stata registrata un’affluenza di pubblico continuativa e costante. Un successo notevole per la partecipazione, ma soprattutto per l’interesse che il pubblico ha dimostrato nei confronti della storia fulcro della mostra.

A Busto Arsizio la mostra è stata organizzata dalla Comunità Giovanile ed è stata inaugurata nel cortile del municipio sabato 9 novembre alla presenza del sindaco Emanuele Antonelli, del curatore Guido Giraudo e del giornalista Augusto Grandi. La mostra verrà poi esposta fino al 24 novembre nella sede della Comunità Giovanile in vicolo Carpi, 5.

A Torino la mostra è stata organizzata dall’Associazione Libertà in Azione Onlus in collaborazione con l’Associazione Culturale Lorien presso la Casa del quartiere “Ci vediamo in via Dego”, in via Dego 6. Inaugurata l’8 novembre rimarrà esposta fino al 24 novembre.

A Sanremo la mostra è stata organizzata dall’Associazione Culturale Et Ventis Adversis ed stata esposta nella giornata del 9 novembre a Palazzo Roverizio in via Escoffeir.


Mememento 5.09: Crazy Horse

Il 5 dicembre 1877 moriva pugnalato da una baionetta il capo della tribù Oglala Lakota (Sioux), Tashunka Witko, meglio conosciuto col nome di Cavallo Pazzo (Crazy Horse). Gli assassini yankee non gli perdonarono di averli sconfitti a Little Big Horn.

Vogliamo ricordare questo spirito libero, capo e guerriero indomito che seppe, anche se per poco, aver ragione degli Yankee. E con lui è d’uopo ricordare anche l’olocausto del “Popolo degli Uomini” sterminati e rinchiusi in riserve come bestie dai civili portatori di democrazia.

Crazy Horse (testo e musica Carmine Asunis) clicca qui per il testo della canzone

 

Cavallo Pazzo, incubo dei bianchi, eroe dei Sioux


I Ribelli siamo noi

E’ uscita la seconda edizione, riveduta ed ampliata del libro curato da Michele Tosca, “I ribelli siamo”. Il testo, in due volumi, è il diario dei tragici giorni della Repubblica Sociale a Torino. Ne presentiamo il testo attraverso l’introduzione del testo scritta da Fabrizio Vincenti.

Quando, nell’ormai lontano 2012, ci accingevamo a lavorare alla biografia di Giuseppe Solaro, l’ultimo federale della RSI a Torino, avemmo occasione di contattare per informazioni sulla guerra civile in Piemonte l’editore Roberto Chiaramonte. Il quale, una volta appresa la nostra intenzione, ci disse con tono fermo: “Guardi, sul Fascismo in Piemonte, durante la RSI, c’è un’opera che è definitiva. C’è poco da aggiungere a quanto ha scritto Michele Tosca ne “I ribelli siamo noi”. Se poi si concentra solo sulla figura di Solaro, allora contatti Tosca”. È quanto avevamo intenzione di fare e quanto poi abbiamo realizzato con la biografia di uno dei più lucidi e tragici esempi di valore, dedizione e fedeltà al verbo mussoliniano nei tempi bui della guerra civile. Ma il debito che abbiamo maturato verso “I ribelli siamo noi” e verso il suo autore è immenso. L’opera di Tosca è di quelle imprescindibili per chi vuole respirare l’aria tossica che si respira in tempo di guerra, a maggior ragione se è un conflitto che divide, devasta, squarta una Nazione. E l’osservatorio piemontese è una perfetta cartina di tornasole di quanto accaduto in quei 600 giorni della Repubblica nata con la liberazione di Mussolini dal Gran Sasso, un sogno intriso di contenuti sociali segnati dalla voglia di chiudere con ogni moderatismo e con ogni potere consolidato che si è dovuto scontrare con un conflitto brutale, alimentato con grande lucidità e cinismo, sin dai primi giorni dell’ottobre del 1943, dalle cellule comuniste presenti nel Nord Italia. Il Piemonte è stato l’incubatore della guerra civile, grazie alla presenza di un forte Partito Comunista, di un radicato Partito d’Azione che proprio da quelle parti ha conosciuto la sua maggiore fortuna, ma anche grazie a un tessuto in parte ancora legato alla monarchia e dove le presenze massoniche continuavano a vantare solidi appigli. Senza dimenticare, naturalmente, l’ingombrante e potente ruolo giocato dalla Fiat, che sotto la guida di Valletta riuscì imbonirsi i tedeschi e contemporaneamente finanziare massicciamente le bande partigiane. Unico nemico: i fascisti. Come lo stesso Solaro aveva denunciato più volte ai vertici del Pfr ma anche allo stesso Mussolini. I casi di boicottaggio strisciante verso le autorità repubblicane non si contarono e sfociarono nel naufragio delle elezioni per i consigli di gestione, osteggiati in un’apparente contraddizione da capitalisti e comunisti. Senza dimenticare il divieto, per tutti i dirigenti Fiat, di iscriversi al Fascismo repubblicano. Un divieto che arrivava da quel Giovanni Agnelli, senatore sotto il Fascismo, che commentò così in un telegramma al Duce la conquista dell’Etiopia, avvenuta solo sette anni prima: “Nel momento in cui il Tricolore italiano sventola ad Addis Abeba immancabile pegno di civiltà e di grandezza per quegli sviluppi voluti e preconizzati dall’E. V., che ha saputo forgiare alla nostra Patria nuovi destini, tutti i dirigenti, impiegati e operai della Fiat si uniscono a me nell’esprimere loro animo riconoscente e fervido rinnovellato voto di devozione”. Di voltagabbana, avventurieri, criminali, eroi “I ribelli siano noi” è pieno, a partire dalla figura che si staglia per coerenza e onestà di Solaro, a cui il libro è in qualche modo dedicato, avendo come titolo uno dei più famosi discorsi pronunciati alla radio dal giovane federale, una sorta di manifesto esistenziale prima ancora che politico e che testimonia, al di là di una certa retorica antifascista, la purezza di molti che combatterono al fianco del Duce, ben consapevoli dell’epilogo. Ma de “I ribelli siamo noi” è da sottolineare anche la ricostruzione cronologica di quanto avvenuto in Piemonte grazie all’opera certosina e scientifica che ha comportato anni di duro lavoro a Tosca. Troverete ogni singolo episodio, con le citazioni tratte dai giornali dell’epoca: dalla tragica spirale degli atti di terrorismo che innescarono le rappresaglie agli squarci di una difficile vita quotidiana spesa tra bombardamenti, borsa nera e terrore. Giorno per giorno, con uno stile asciutto ma che permette nel contempo di vivere, grazie ad una sorta di ben congegnata macchina del tempo, tra le strade semi deserte, la nebbia e le botteghe di una Torino che non c’è in larga parte più, cosa fosse la guerra civile. Un diario quotidiano, arricchito da nuovi e originali spunti in questa seconda edizione, che è un manifesto per chi vuole leggere, raccontare, capire la storia. E che rapisce il lettore, trasmettendogli tutta la drammaticità di quei giorni. L’opera di Tosca, a cui ci lega un sincero affetto maturato dalla conoscenza delle sue enormi qualità umane e del suo spessore come storico, è di quelle che dovrebbe essere negli scaffali delle librerie di ogni scuola del Piemonte e non solo, prima di tutto per capire in profondità, prendendo spunto dalla nuda cronaca, un periodo della storia nazionale che non si è affatto chiuso. È di quelle che aiutano a comprendere, unendo il rigore delle storico alla passione civile, cosa siamo e da dove veniamo. 

Riportiamo anche di seguito un interessante recensione alla prima edizione, pubblicato in rete sul “Blitzkrieg militaria forum” anni or sono.

In questo uggioso e poco caldo pomeriggio di una domenica di mezza estate, desidero segnalare questo libro curato da Michele Tosca ed edito dalla “Roberto Chiaramonte Editore”.
E’ la cronaca giornaliera fredda e volutamente distaccata, di ciò che accadde a Torino (e provincia) nel periodo che va dal settembre ’43 al dicembre ’47.
Comprendo che a molti la forma inevitabilmente didascalica che sottende a qualsiasi libro di tipo “cronologico”, possa non piacere; io però invece al contrario ritengo che proprio attraverso tale forma si riesca a trasmettere al meglio il clima cupo del periodo.
Il lettore potrà infatti, attraverso una consapevole lettura, immergersi in quegli anni che vengono descritti dall’autore non attraverso notizie da “Prima Pagina”, ma bensì per il tramite di quelle minori che si sostanziano in una serie pressoché infinita, di omicidi, attentati e rappresaglie.
Ritengo quindi la lettura dei due tomi di Tosca, da consigliare (soprattutto alle nuove generazioni) in quanto, pur essendo un libro “di parte” che si sforza (riuscendoci) di essere sostanzialmente obbiettivo, da bene l’idea di come coloro i quali vissero quel periodo (a Torino come in qualsiasi altra città del nord Italia), al di là di qualsiasi enfasi e retorica dell’una e dell’altra parte, affrontarono l’esistenza con un senso di assoluta fatalità.
Scorrendo le pagine e quindi i giorni, ben si comprende come bastasse all’epoca essere semplicemente un impiegato comunale, un parente di un militare od un innocuo commerciante (ma inviso a qualcuno) per cadere sotto i colpi della “Giustizia Partigiana”, ovvero trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato per diventare oggetto di un rastrellamento o peggio di una rappresaglia.
Chi mi conosce sa bene che, nonostante la mia quasi trentennale (sigh…) conoscenza in materia di storia della RSI e guerra civile, non ho mai dato giudizi sferzanti sul torto o sulla ragione dell’una e dell’altra parte, ritengo però in questo caso fare una eccezione…letto questo libro penso che pochi potrebbero ancora dire che in Italia ci sia da festeggiare qualcosa sulla fine della seconda guerra mondiale….se non la fine della guerra stessa e di tutte le sue nefandezze!