I ribelli siamo noi

I RIBELLI SIAMO NOI

Dopo la fucilazione delle Ausiliarie a Nichelino, prigioniera dei partigiani resta la più giovane, Marilena Grill, di 16 anni, che frequenta il secondo anno al liceo D’Azeglio ed è addetta all’Ufficio Ricerche Dispersi. Tra i partigiani che l’hanno prelevata a casa sua vi è un suo compagno di scuola che l’ha rassicurata. Marilena è  orfana di padre, di religione valdese, studentessa di ottimo profitto, che dal luglio del ’44 ha “dato una mano” al Posto di Ristoro per militari alla Stazione di Porta Nuova, sa di non avere niente di cui vergognarsi o per cui possa essere incolpata, vincendo  le resistenze della madre, più diffidente,  li ha seguiti . Prima, però, ha chiesto  di  indossare la sua divisa di Ausiliaria. Così con la sua divisa è stata rinchiusa alla Caserma Valdocco dal giorno 28.[1] Quando viene condotta al Rondò d’la Forca per essere fucilata, insieme ad un altra ausiliaria, Ernesta Raviola, ed ad altre due donne non identificate, il comandante della 105a Brigata Pisacane, Alberto Polidori, incaricato dell’esecuzione, si rifiuta di ordinare il fuoco. Prende il suo posto “Pierin d’la Fisa”, Piero Sasso, comandante comunista della 18a Brigata di Corio, che spara anche la prima raffica.[1]

Tra i “giustiziati” dai partigiani vi sono molte donne: sulla sorte di alcune di loro testimonierà un vigile del fuoco torinese che ha assistito, con sgomento, fra il 25 aprile ed il 1° maggio, a molte uccisioni. È stato anche testimone di un processo, in un cortile, ad un gruppo di donne colpevoli di aver lavorato, per mantenere la famiglia, alle mense tedesche di via Verdi. Interrogate e lasciate libere con le figlie, che erano venute ad attenderle per riportarle a casa, nonostante l’assoluzione, vengono rapate a zero e caricate su un camion. Verranno trovate uccise nei pressi del Rondò d’la Forca ad opera di “sconosciuti”, probabilmente gli stessi che durante il processo ne chiedevano la condanna a morte.[1] È credibile che il “processo” ed il seguito, siano riferibili proprio alla uccisione di Marilena Grill (anche lei forse processata e non condannata per la giovane età) di Ernesta Raviola e di due cuoche che prestavano servizio alla G.N.R..

Ernesta Raviola, vent’anni, è figlia di Alberto, un operaio con una storia politica travagliata .E’ stato sottoposto, fino al 1925, a vigilanza speciale dal Regime in quanto comunista poi aderisce al fascismo, e, durante la RSI, fa parte della Brigata Nera “Ather Capelli”. Arrestato dopo il 25 aprile, verrà internato, per alcuni mesi, a Laterina. Processato  sarà prima condannato  all’ergastolo , e successivamente amnistiato. Quando rientrerà a Torino, verrà a conoscenza della morte della figlia,  allora aderisce al PCI , diventando  capo-cellula della fabbrica in cui lavora,  allo scopo di scoprire gli assassini della figlia e denunciarli . Il 23 dicembre del ‘47, attratto in un tranello con una telefonata che gli promette notizie sulla figlia, verrà assassinato. A due anni dopo la fine della guerra!. [1]


[1] Testimonianza di Rosilda Fanolla il 28-9-99, vedi anche don Marabotto, op. cit.

Una giovanissima Ausiliaria, la quindicenne Rosilda Fanolla, verso le 8 del mattino, mentre è in attesa del tram numero 21 in corso Casale, per recarsi alla messa di trigesima del padre Silvio, caduto in un agguato partigiano a Varese Ligure in provincia di La Spezia, viene rapita da tre partigiani in auto e condotta presso la Brigata autonoma “De Vitis” comandata da Nicoletta, nella zona di Giaveno. Verrà liberata dopo 42 giorni di prigionia e di trattative condotte da Solaro, per l’intervento di Paolo Zerbino che farà liberare in cambio il partigiano “Boccastorta”, non essendo a conoscenza che lo stesso, era uno dei rapitori della Fanolla, in seguito catturato


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