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Epitaffio per un imbecille

“E a proposito di padri e di proiezioni nella vita famigliare, stiamo in guardia, stiamo in guardia perché è in agguato la televisione, le pantofole e io già sono in giacca, cravatta e panciotto, sono su una strada pericolosa, me è un po’ un problema che si pone a tutti noi, perché attenzione la Giovinezza è una cosa bellissima, poi finisce e ci sono delle altre fasi della vita e qualche volta in questi fasi si è vincenti, si riesce a diventare vecchi decorosamente altre volte si rimminchionisce irrimediabilmente. E allora abbiamo fatto una canzone molto cattiva, che appunto il titolo dice tutto “Epitaffio per un imbecille” è una canzone che è un po’ amara perché gli imbecilli non sono sempre gli altri, ognuno di noi è portato per presunzione a ritenere che i peggiori siano sempre i vicini di casa, mai se stessi. E allora ci serve sempre da cartina tornasole per vedere a che punto ci siamo rimminchioniti e nell’ascoltare questa canzone facciamoci un esame di coscienza, anche se è un concetto un po’ strano per noi, a volte così paganeggianti, facciamocelo questo esamino di coscienza e vediamo se siamo diventati imbecilli anche noi o se rischiamo di diventarlo.”

Con queste parole, Walter Jeder, il 31 marzo 1980 a Milano al concerto “E’ tutta un’altra musica” presentava la canzone “Epitaffio” eseguita da Fabrizio Marzi.

 

La canzone all’epoca rimasta inedita, verrà pubblicata solo 1997 nella raccolta “Alzo Zero“. Il brano nasce dal riadattamento che fece Walter Jeder di un testo pubblicato su un volantino, che s’intitolava “Epitaffio per un imbecille”. Un titolo al vetriolo per un testo lucido e pungente scritto sul finire degli anni ’60 del 900, che percorre la vita piatta di un uomo qualunque, che “non ha mai rotto un lampione con una sassata, né un pregiudizio con libera volontà” e che quando “è scomparso dal mondo non se ne è accorto nessuno”.

Un testo che fa impietosamente capire che a volte, anche se si crede di vivere una vita densa, piena di impegni, non vuole dire che si stia vivendo davvero. E fermandosi un attimo a pensare, ci si potrebbe rendere conto di vivere una vita vuota, omologata, incastonata in un sistema standardizzato in cui si pensa di essere protagonisti e si è invece delle marionette perfettamente allineate al pensiero unico del “politicamente corretto”. Una vita senza valori, senza sogni, senza emozioni, piatta come l’elettrocardiogramma di un morto! 

E allora leggiamo questo testo e usiamolo come una cartina tornasole, facciamolo quest’esame di coscienza e per tenere sempre vivi i nostri sogni, per coltivarli e difenderli ogni giorno, per non cedere alle lusinghe della quotidianità, della vita tranquilla, del chi te lo fa fare.

Ricordiamoci, “senza inseguire il mito della sopravvivenza, di amare più il pericolo e un poco meno la prudenza” (1) .


Aveva quel genere di onestà schifosa, che non costa niente ed evita grane con il capoufficio, i vicini, la questura ed anche con il Padreterno, visto che è morto con tutti i sacramenti di Santa Madre Cattolica Apostolica Romana Ecclesia.
Da ragazzo non ha mai rotto un lampione con una sassata, né un pregiudizio con libera volontà.
Andava a scuola e studiava poco, ma strappava sufficienza perché, per ruffianeria congenita, credeva veramente alle idiozie dei suoi professori.
Come tutti gli ignoranti aveva il fanatismo della scienza.
Dopo la pubertà fu scosso da un fremito di libidine che fu l’unica cosa notevole della sua vita, sebbene, per lungo tempo, covasse solitaria.
Quando poi trovò una donna, sembrò, che un alone di romantica poesia, fosse divenuto persino intelligente.
Ma poi si impiegò, si sposò, ed ebbe figli.
La domenica andava a prendere la granita di caffè con la moglie, e rimproverava i bambini perché non stavano mai fermi.
In politica detestava gli estremismi, in arte era conservatore. Soleva ripetere che il jazz è solo frastuono, e si professava cultore della musica classica: infatti l’unica volta che andò ad un concerto wagneriano, si addormentò.
I giorni che visse si somigliavano tutti, scanditi da una noia che nemmeno giungeva a ferirlo.
E gli anni somigliavano agli anni.
Invecchiando trasmise il suo umore acido alla moglie e ai figli.
Adesso che è scomparso dal mondo non se ne è accorto nessuno.
Ma noi lo abbiamo saputo lo stesso e siamo venuti a ridere sulla sua tomba; abbiamo bevuto molto vino, come si conviene per una festa.
Con la solennità degli ubriachi abbiamo giurato di non finire come lui, di non abbandonare i sogni che ci fanno giovani, né gli ideali che ci fanno liberi; in ricchezza o in povertà, finchè morte non sopravvenga.
Amen.

Volantino del 
Gruppo Gioventù Primula
“La spada e la rosa” opuscolo di Europa Civiltà

 

(1) dalla canzone “A Carlo” degli Amici del Vento

La lettera che ispirò “Nel suo nome”

Il 28 febbraio del 1975 a Roma si celebra il processo agli imputati per la Strage di Primavalle. Durante la pausa dell’udienza un corteo di sinistra attacca la sede dell’M.S.I. di via Ottaviano 9 dove sono asserragliati dei giovani militanti del Fronte della Gioventù e del FUAN. Nel corso degli scontri che si susseguono Alvaro Lojacono (1), militante di potere operaio, sparò con una pistola calibro 38 colpendo in fronte il militante del FUAN Mikis Mantakas. Lo studente greco gravemente ferito, morirà dopo alcune ore di agonia. Aveva solo 23 anni. 

Vent’anni sono pochi per farsi aprir la testa, dall’odio di chi invidia la nostra gioventù

A lui Carlo Venturino dedico la sua prima canzone, “Nel suo nome”, il cui testo fu ispirato da una lettera scritta dalla ragazza di Mantakas dopo la sua morte. Col passare degli anni si perse la memoria della fonte e si diffuse la credenza che tale lettera fosse stata pubblicata sulle pagine del Secolo d’Italia, ma dalle ricerche effettuate sul quotidiano del Movimento Sociale di quel periodo non emerse nulla. Rimase quindi il dubbio  dell’origine della fonte e si pensò fosse stata pubblicata su qualche giornale o bollettino locale a cui difficilmente si sarebbe potuto risalire.

Ma nell’estate del 2018 gli archivi Lorien hanno acquistato, per l’Archivio della Destra Storica, diversi numeri della rivista La Sfida, periodico del Fronte della Gioventù edito tra il 1974 e il 1975/76. Tra i vari numeri ve ne era uno dedicato all’uccisione di Mikis Mantakas che al suo interno riportava un articolo “Morire a Roma” che conteneva anche uno scritto della ragazza dello studente greco, Sabrina. Una lettera aperta, scritta all’indomani della morte dello studente greco, in cui ne ricordava la figura e gli ultimi istanti passati insieme, di quel tragico giorno in cui avrebbero dovuto andare a pranzo insieme (Ragazza che aspettavi un giorno come tanti, un cinema e una pizza, per stare un po’ con lui) e invece della telefonata attesa, tante troppe telefonate, la porta che si apriva innumerevoli volte e il sogno che si spezza nel più atroce dei modi (Sai, stasera, in piazza… erano tanti, e… il tuo ragazzo è morto… è morto questa sera).

Inequivocabilmente questo scritto, pubblicato su La Sfida n. 9 del 13 marzo 1975,  è quello che ispirò Carlo Venturino (poi fondatore degli Amici del Vento) a scrivere “Nel suo nome”. 


Ragazza che aspettavi un giorno come tanti, 
un cinema e una pizza, per stare un po’ con lui,
dai apri la tua porta, che vengo per parlarti:
“Sai, stasera, in piazza… erano tanti, e…
il tuo ragazzo è morto… è morto questa sera”.

Vent’anni sono pochi per farsi aprir la testa, 
dall’odio di chi invidia la nostra gioventù,
di chi uno straccio rosso ha usato per bandiera, 
perché non ha il coraggio di servirne una vera.
La gioventù d’Europa stasera piangerà 
chi muore in primavera per la sua Fedeltà.

Le idee fanno paura a questa società, 
ma ancora più paura può far la Fedeltà: 
la Fedeltà a una terra, la Fedeltà a un amore, 
son cose troppo grandi per chi non ha più cuore.
Un fiore di ciliegio tu porta tra i capelli, 
vedendoti passare ti riconoscerò e…
Sole d’Occidente che accogli il nostro amico, 
ritorna a illuminare il nostro mondo antico.
Dai colli dell’Eterna ritornino i cavalli, 
che portano gli eroi di questo mondo stanchi.

Ragazza del mio amico che è morto questa sera, 
il fiore tra i capelli no, non ti appassirà.
Di questo tuo dolore noi faremo una bandiera, 
nel buio della notte una fiamma splenderà.
Sarà la nostra fiamma, 
saranno i tuoi vent’anni, 
la nostra primavera 
sarà la libertà.


(1) Alvaro Lojacono nel marzo del 1977 (primo grado) viene scagionato dall’accusa di omicidio, ma nel maggio del 1980 (secondo grado) viene condannato a 16 anni di reclusione. A seguito del ricorso in cassazione rimane però in libertà e questo gli permette di darsi alla latitanza anche grazie agli aiuti di amici e parenti. Fuggito in Algeria e poi in Brasile, approda infine in Svizzera, dove però, a seguito di un mandato di arresto internazionale viene messo in detenzione preventiva. Processato nel novembre del 1989 per l’omicidio  del giudice Girolamo Tartaglione viene condannato a 17 anni di reclusione, di cui ne sconterà 9 e due in semilibertà. Mentre per l’assassinio di Mikis Mantakas non sconterà neanche un giorno.