Rassegna Stampa

Cabaret la storia mai scritta - 1965 la patria nella valigia

Testata: SECOLO D'ITALIA

Data:19 agosto 1995
Autore: Leo Valeriano
Tipologia: Specifico

Locazione in archivio

Stato:Originale
Locazione: ASMA,RS2-0008 (RS6-0001),9 (9)

Torna alla Rassegna Stampa
Leo Valeriano racconta la storia di un'esperienza irripetibile e misconosciuta: il cabaret di Destra. Dalle cantine del Giardino dei Supplizi alla sferzante ironia del primo Bagaglino, ricordi personali e frammenti di vita vissuta "sul lato sbagliato" delle barricate ideologiche

Appena giunto ad Ariccia, Teddy Reno mi disse “Dovresti andare a nome mio a questo indirizzo. E’ la redazione di un settimanale molto importante. Ci lavora un giornalista che si chiama Piero Palumbo. Ti aspetta. Sa che ti mando io” Quell’anno essendo appena tornato dalla mia esperienza di emigrante in Germania e non avendo ancora trovato un lavoro avevo provato a partecipare alla festa degli Scomosciuti ad Ariccia, una di quelle manifestazioni per aspiranti cantanti che erano nate in quel periodo. Nonostante tutto mi ero piazzato non troppo male, Eravamo a metà degli anni ’60 e imperversava la musica beat. Alla ribalta internazionale si erano imposto gruppi come i Beatles e da noi più modestamente i Rokes. Questi ultimi erano stati scoperti da Teddy Reno, attraverso il suo concorso dopo la fortunata annata di Rita Pavone. Probabilmente fu per questo motivo che la manifestazione di cui parlo salì improvvisamente alla ribalta diventando un fenomeno sociale. Aspiranti cantanti, cantautori, autori, provenienti da tutta Italia, previo invio di L. 10.000 pari a circa 120.000 lire odierne, per l’iscrizione, si affrontavano le eliminatorie , le semifinali e poi se si era fortunati le finali. Per i vincitori c’era un premio ambitissimo, avrebbero inciso un disco con etichetta Arc, presso la Rca italiana, Io, anche se riuscii a giungere fino alle finali, non vinsi. Del resto ero perfettamente consapevole che non avrei potuto raggiungere un risultato migliore presentando una ballata che con un ritmo prima e una melodia prettamente italiani, raccontava i sentimenti di un uomo costretto a lasciare la sua terra portando con se un pezzo di patria: Nella Valigia.
Questo testo e la musica che lo accompagna stonavano con i più coinvolgenti “C2è una strana espressione nei tuoi occhi” o “Cuore” ma Ferruccio Ricordi probabilmente colpito da questa canzone e dal mio modo di cantarla, cominciò a portarmi con se negli spettacoli che proponeva in giro, nella provincia. Ogni giorno quindi armato della mia pesantissima chitarra elettrica, prendevo l’auto per i Castelli e arrivavo fino allo studio di Teddy Reno. L’esperienza era nuova e mi coinvolgeva abbastanza, ama restavo abbastanza lucido da capire che si trattava solo di un gioco, di un passaggio e che prima o poi sarei dovuto tornare a un lavoro vero. Di lavori veri ne avevo affrontati parecchi fino a quel momento, come
Elettrauto, come cartellonista pubblicitario, come commesso in negozi diversi e persino come edile. Poi ero riuscito ad ottenere il famoso posto fisso come disegnatore di circuiti elettrici in una grande fabbrica ma dopo qualche anno forse per il suo carattere ripetitivo questa attività mi aveva disilluso più delle altre. Era il periodo delle grandi lotte sindacali e delle rivendicazioni massicce da parte dei metalmeccanici. L’Italia cominciava a vivere un malessere non ancora ben definito ma che l’allora partito comunista intuiva di poter sfruttare ai propri fini. Scioperi e cortei a non finire, Riunioni di fabbrica. Ovviamente con c’era solo il Pci e la Cgil e i sindacati più moderati offrivano qualche resistenza all’avanzata rossa. Io avevo vinto una borsa di studio per la Scuola Sindacale della Uil a Ostia dove fui classificato primo, ma quando scoprii che i dirigenti più che fare gli interessi dei lavoratori pensavano ai propri, me ne andai. Fu proprio un discorso che mi fece Viglianesi, il segretario generale della Uil, mentre lo accompagnavo in macchina alla stazione che mi fece decidere “A volte la battaglia può essere più importante del fine” così mi disse “Se le cose stanno così, pensai, vuol dire che questi considerano l’iscritto solo un elemento da sfruttare per il raggiungimento dei loro fini personali” E mi allontanai dal sindacato. Non lo sapevo, ma si avvicinava quel ’68 in cui la politica avrebbe travolto in una rossa ondata tutta la nostra antica civiltà. Erano giorni bui quelli che si avvicinavano. Anche io vivevo un’ansia che non sapevo ancora tradurre in termini risolutivi. Cercavo come scrissi più tardi in un’altra canzone “qualcosa che non so se esiste che non so cos’è”. E così pensando che il mio paese fosse troppo distratto per pensare a un mondo ideale me lo andai a cercare in germana dove avevo trovato lavoro come grafico pubblicitario. L’esperienza tedesca mi fu salutare. Innanzitutto perché mi insegnò che un uomo dovunque si va si porta appresso i suoi sogni e i suoi problemi, e poi che nessun paese è più adatto per viverci della propria patria . E fu per questo oltre che a una serie di tristi avvenimenti che tornai in Italia. Spinto da alcuni amici che avevano ascoltato le mie canzoni e non avendo ancora trovato un lavoro, avevo affrontato l’avventura canora. Ovviamente Ferruccio Ricordi per quegli sopettacolini ci dava qualche soldo ma questi non bastavano certamente per vivere e quando mi disse di andare da Piero Palumbo ero proprio sul punto di tornare ad una attività più redditizia “Ti consiglio di andarci, mi disse ancora, non ho capito bene di che cosa abbiano bisogno ma sembra che stiano organizzando una specie di teatro alla francese e che cerchino qualche cantante che esegua canzoni un po’ strane delle tue non ne conosco davvero” L’estate era sul punto di andarsene, ma faceva ancora molto caldo. Arrivai con la lingua di fuori e tutto sudato. Non ero mai entrato in una redazione di un giornale e quando salii l’ampia scalinata nel palazzo di Via XX Settembre ebbi un’impressione di ricchezza e di potere talmente distanti dal mondo in cui vivevo da darmi un senso di estraneità che mi provocò nelle ossa come un senso di dolore. Ma forse pensai poi era solo l’effetto del fresco intenso che mi aveva bloccato il sudore sulla pelle. Ovviamente non avevo mai sentito parlare di Nelson Page, l’editore temuto da molti e che spesso faceva tremare perfino coloro che del potere facevano una professione. Era quella la sede del suo regno. Non sapevo ma ero allarmato. Tuttavia quando incontrai Piero Palumbo mi tranquillizzai. Era una persona dai modi dolcissimi e molto indaffarato. Non mi trattenne a lungo. Solo il tempo di farmi qualche domanda e di invitarmi a un certo indirizzo per la sera stessa. La casa nella quale ero stato convocato si trovava al centro di Roma e apparteneva a Lello Della Bona, un giornalista del Secolo d’Italia. Quando entrai vidi quella che considerai una folla. In una stanza piuttosto grande era riunito un tal numero di persone da farla sembrare piccola. Erano tutti impegnati in un fitto chiacchiericcio di cui riuscivo a capire solo vagamente i significati. Nell’aria sentivo un odore di essenze di cui solo molto più tardi avrei scoperto l’origine. Mi sedetti in un angolo appoggiando al muro la chitarra elettrica e l’amplificatore che avevo portato con me e cominciai ad interessarmi a tutta quella gente che si agitava e si accalorava. Io al contrario mi sentivo di ghiaccio come quando ci si trova davanti a qualcuno di incomprensibile. Parlavano di cabaret. Ricordo che per un attimo pensai che si potesse trattare di uno di quei vassoi su cui nelle nostre case di periferia si serviva la pasticceria. Poi qualcuno mi invitò a cantare una canzone. Cantai La Valigia e ebbi lo stesso risultato che avevo ottenuto quattro mesi prima quando l’avevo cantata ad Ariccia, per un momento rimasero tutti a guardarmi in silenzio. “Non gli vado bene” pensai tra me. Invece dopo una breve confabulazione un signore anziano coi baffi e dalla faccia simpatica mi diede un bigliettino con un indirizzo e mi disse “La aspettiamo domani pomeriggio, non manchi” Il portoncino in Via della Campanella , una traversa di Via Panico, vicino a Via Coronari, sembrava quello di una cantina, ma era stato pulito e laccato di fresco. Su una delle due ante era stato aperto uno spioncino con una grata, come quelli che avevo visto altre volte negli istituti di suore. Bussai. Mi aprì quel Lello Della Bona nella cui casa ero stato la sera prima. Entrai. All’inizio i miei occhi erano abbagliati dal sole esterno non riuscirono a percepire nulla. Sentivo solo uno strano odore di muffa e un vociare lontano. Quando i miei occhi si furono abituati a quella improvvisa penombra, distinsi una scala che scendeva in un buio ancora più fitto e verso la quale si dirigeva il mio ospite. Lo seguii. Dopo la prima curva mi apparve una luce fioca e in essa una grande stanza dove fervevano diverse attività. All’odore della muffa si mescolò quello delle vernice. Notai alcune donne che dipingevano sedie e altre che le sistemavano in un’altra parte del locale. Su una specie di palcoscenico un paio di persone si scambiavano battute che leggevano da un copione. Seduti intorno a un minuscolo tavolo c’erano tre individui che confabulavano mentre un quarto scriveva. E soprattutto il rumore assordante di un motore che poi seppi essere un deumidificatore. Il signore simpatico coi baffi, quando mi vide si alzò dal tavolo sorridendo e mi venne incontro. Dopo avermi fatto sedere poco distante mi chiese se avessi composto altre canzoni oltre quella che avevano ascoltato la sera prima. Presi la chitarra e comincia a cantare “Hanno preso un ragazzo, l’hanno fatto soldato, gli hanno dato un fucile e non è più tornato..” Mario Castellacci, era questo il nome del signore coi baffi, mi guardò con quello strano sguardo che gli è proprio e che fa intuire strade di pensiero diverso da quello usuale. Con un cenno della mano chiamò gli altri che erano ancora seduti al piccolo tavolo e disse loro” Sentite questa. Mi sembra che possa andare bene "Si avvicinarono e io ricominciai a cantare. C'era Palumbo, che avevo conosciuto per primo, Pingitore un tipo dall'aria svagata che avrei visto sempre con un foulard intorno al collo e un tale con un paio di occhi accesi e gelidi come spade, era Luciano Cirri “Non è male, ma bisogna lavorarci un po’” Gli altri annuirono “D’accordo. Ci penso io” concluse Castellaci e mi chiese “Dovresti venire a casa mia, Staremo più comodi” Quei quattro giornalisti, più Finaldi e Della Bona, erano gli inventori di quello che sarebbe stato il cabaret più famoso d’Italia. Gli anarchici di destra. Così si autodefinivano con quel senso di ironia che avrei ritrovato in tutti i loro lavori. A casa di Mario Castellacci, in effetti ci andai una sola volta. Il tempo necessario per fare un notevole taglio a quella canzone chilometrica e per cambiare qualche parola. Poi comincia a tentare di interpretarla. Regista dello spettacolo era un signore non molto alto con un curioso senso dell’umorismo e una grande professionalità. Si chiamava Oreste Lionello e i giornali ne parlavano come di una rivelazione. Mi insegnò a stare in scena


Gruppi citati

LEO VALERIANO - Cabaret e satira