Rassegna Stampa

Un gesto, più di un gesto. In memoria di Roberto Scocco

Testata: INFORM@ZIONE.TV

Data:6 gennaio 2013
Autore: Adolfo Leoni
Tipologia: Specifico

Locazione in archivio

Stato:Solo Testo
Locazione: ASMA-Archivio digitale RS,Web/Inform@zione.TV,Inform@zione-TV 2013-01-06

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Attualità
Un gesto, più di un gesto. In memoria di Roberto Scocco
Non desideravo tornare sulla morte di Roberto Scocco. Il funerale di ieri a Macerata rischiava di restare confinato nella cronaca. Volevo invece custodirne un ricordo silenzioso. Custodirlo nel cuore gonfio, mesto e pieno di malinconia. Pezzi della mia generazione se ne vanno…

Un post su facebook mi ha fatto cambiare idea. Un’amica mi ha visto alle esequie ed ora mi chiede di aiutarla – e aiutare i suoi amici - a non dimenticare Roberto, a fare in modo che questa Terra da lui amata non lo scordi. Ho risposto: “Promesso”. Farò del mio meglio. Già con la penna.
Ma c’è un altro fatto che mi ha spronato a scrivere. Le cronache riportano dei saluti romani all’uscita della bara. Molti commenti già scordano Roberto e lo affogano nella delittuosa contrapposizione politica. Idioti!
Stavo in mezzo a coloro che hanno alzato il braccio. Io no! Perché non volevo abboccare. Perché non volevo che si leggesse riduttivamente la persona di Roberto. Conosco le logiche. Ma anche per altro.
Lui era molto di più. Quel gesto non può contenerlo. Non può contenere la sua allegria, il suo sorriso, l’amore per le montagne, per i miti, per la Cavalleria, per la famiglia. Per i valori di onestà e fierezza. Per la schiena dritta. Per la giustizia. Ci sono uomini irriducibili. Che non si piegano. Preferiscono spezzarsi. Lui. Ultima rivolta contro il mondo moderno e le sue logiche rapaci e usuraie. Molto di più, allora, molto…
Facevamo 40 anni fa quel saluto come ribelli, come razza umana minoritaria, che nulla avrebbe guadagnato e tutto invece perduto. Lo facevamo contro i figli di papà che avevano scelto di intrupparsi nella massa, di contestare quel che a casa abitualmente continuavano ad usare.
Cercavamo altro, volevamo andare oltre, superare gli schemi. Un mondo nuovo e antico, di codici, di sangue, di lealtà.
Ieri, invece, da solo, non visto, ho portato il pugno sul cuore, come i legionari di Roma.
Ma se a Roberto fa piacere, lui che ora è andato ben oltre e là ci attende, anch’io, bastian contrario che tutto ha da perdere e nulla da guadagnare, alzo il braccio destro, contro i detrattori, contro gli idoti, contro i commenti pavidi e senza coraggio, contro insomma, e dico: Camerata Roberto, presente!
E rileggo le parole di Priamo che chiede il corpo di suo figlio Ettore, e le risposte di Achille intrise di pietas. E ripenso all’omelia del sacerdote che ha parlato dell’enorme misericordia di Dio, che tutto abbraccia, tutto comprende, tutto salva. Anche un colpo di fucile che rimbomberà per anni.
Per conto mio, cara amica, dedico a Roberto un racconto del mio ultimo libro. Lo leggerò ad ogni presentazione. Citando un amico che ci ha solo preceduti.
Eccolo.

Il Giuramento del Cavaliere

Signore, sono inginocchiato dinanzi alla mia spada.
Ti sto pregando, le mani avvinghiate all'elsa.
La chiesa è fredda e oscura. Solo il tremolio di una candela.
Fuori, la tormenta. In lontananza, il lupo.
Anch'io mi sento un lupo, solitario e nobile,
e non temo questo mio simile.
Altri invece sono i miei simili che temo.
E' tornata la barbarie.
I campi sono di nuovo sfatti.
Le città in agonia, le nostre donne tremano.
Ho messo l'armatura, la pace è infranta,
la terra dovrà essere difesa con il ferro,
il corno ha chiamato la Compagnia a raccolta.
Ho posto al mio fianco la spada perché oggi io torno ad essere
ciò che essi furono ieri: cavalieri, combattenti, fedeli,
uomini mossi dal senso dell'onore.
Ho chiamato a raccolta i miei confratelli.
Stasera pregheremo insieme, in questa angusta cappella,
con le punte delle spade a toccare il pavimento
e le else a forma di croce dinanzi ad ognuno di noi.
Dacci, Signore, la forza di tornare in battaglia;
dacci l'onore di morire con il sorriso sul volto;
dacci un imperatore saggio cui obbedire per sempre.
Le nostre case non sono più sicure.
Dacci l'orgoglio di difendere le nostre contrade, la nostra civiltà.
Eppoi... la tua volontà sia fatta.
E' tornata la barbarie.
Mentre attendo in ginocchio la mia gente,
mi torna l'eco dei secoli che furono:
il galoppo dei cavalli che faceva tremare la terra,
cavalieri dalle corazze e dagli elmi splendenti, dame bellissime.
Bellissime…come lei era bellissima…
Lei.
Il suo volto, il suo corpo, le sue mani… mi riappaiono ora, poco a poco, come un fantasma che prenda sembianze sempre più umane.
Lei.
Quanto ho amato quel volto. Quanto quelle mani esili e lunghe.
Quanto quella bocca dalle due pieghe di dolore.
Quanto quegli occhi densi di parole inespresse e volutamente nascoste.
Lei. Donna di un’altra terra, nobile e forte.
Lei. L’unica a darmi pace e serenità in tempi violenti.
Lei. Sorgente di mille pensieri.
Come vorrei ritrovarla, parlarle, accarezzarla. Averla ancora con me.
“Non voglio averti e non voglio perderti”, disse l’ultima volta.
Ma ci perdemmo per sempre…
Vorrei che la sua figura restasse impressa in una qualche parete
di questo luogo di preghiera e di nuovi giuramenti.
E mentre lei riappare come fosse vera a riscaldarmi il cuore,
mi tornano in mente anche castelli arcigni, e battaglie,
polvere sangue... dolore.
Lassù, sul Manardo, sopra il castello di Amandola ,
sorgeva un altro castello, quello dei Brunforte,
ed un altro ce n'era a Massa ed ancora un altro a Loro
e a Monteverde e a Montegiorgio.
I Brunforte, i Mainardi, gli Offoni: loro sono la mia progenie.
E Mercennario. E Rinaldo, che alcuni dicono tiranno ed altri eroe,
colui che fu tradito nella altrimenti imprendibile rocca di Montefalcone,
e trascinato a Fermo, coi i suoi figli al seguito, legato su di un asino,
posto al contrario sulla cavalcatura.
Eppoi decapitato... insieme ai suoi figli mentre i giovani nemici indossavano abiti da festa.
Brunforte, Offoni, Mainardi...
i Signori contadini, i Domini contadini, cavalieri longobardi e franchi.
Nelle loro rocche, ricordo il suono dei corni che chiamavano a battaglia
o alla festa... e il canglore delle armi.
Nelle loro rocche risuonavano i giuramenti dei nuovi cavalieri:
la mia anima a Dio! La mia vita al mio Sovrano!
Il mio cuore alla mia dama! Il mio onore a me!
Erano i Signori contadini...i Domini contadini,
guerrieri devoti ai monaci benedettini-farfensi prima e ai francescani dopo, cui diedero figli e nipoti, alcuni proclamati anche beati
In queste nostre terre restava intatta e resisteva l'etica feudale.
Resisteva ai miti pallidi delle nuove libertà comunali
condite di mercanti e di borghesi, di commercio e di usura.
Resisteva il legame d'onore e il senso dell'Imperium.
L'Impero: un'idea, un mito. Un ideale che superava i confini naturali
e univa popoli diversi.
Questo era l'impero! L'impero che io vagheggiavo.
In quelle rocche, ricordo la mia investitura.
Cavaliere novello, ho vestito la tunica bianca e la dalmatica dei monarchi, ho ricevuto gli speroni dai fratelli e la spada dal padrino.
Poi, tre volte l'ho brandita.
La prima: per sfidare i nemici della fede;
la seconda, per ricordare la promessa alle vedove e agli orfani;
la terza, per giurare che avrei mantenuto giustizia per tutta la vita,
un monito ai forti e ai deboli, ai miei e agli estranei.
Da quel giorno iniziò la mia Cerca.
Quel Graal che qualcuno identificò nella coppa dove Giuseppe D'Arimatea
raccolse il sangue di Cristo staccato dalla croce;
quel Graal che è invece l'infinito, il mistero della vita, il senso del mio e vostro esistere, il legame tra la mia, piccola o grande azione quotidiana,
e l'ultima stella, quella più lontana fissa nell'universo.
Non nobis, Domine, non nobis, sed nomini tuo, dà gloriam.
Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome rendi gloria.
Voi, gente d'oggi, che ascoltate la mia voce senza vedere il mio corpo,
voi invece potrete incontrarlo, il cavaliere della cerca.
All’imbrunire, nel silenzio della quasi sera rotto dal frusciare del vento, quando il buio non ha prevalso sull’eterno ritorno della vita,
i Monti Azzurri staccano il loro profilo sull’orizzonte.
È quello il momento per vederlo. O per credere… di vederlo.
“Guarda, figlio mio, - indicavano i padri di un tempo – il Guerin Meschino è là, lungo il fianco sinistro della Sibilla, intento nella Cerca incessante dell’antro. Il suo Graal è nascosto nella pancia del monte.
E là si trova – gli hanno detto – la risposta all’incessante domanda d’ognuno: chi sono io?”.
Sibilla maga, Sibila profetessa, Sibilla anticipo della Vergine Maria.
Leggenda, storia, fantasia, verità. L'eterno intrico della vita.
Ma è bello sognare perché il sogno scoperchia, infrange,
sconvolge un oggi troppo uguale e insensato.
E allora, qualche padre conduce ancora suo figlio a S.Angelo in Montespino, il piccolo tempio cristiano di fronte alla montagna e alle leggende;
qualche padre attende il tramonto e, quando il sole scende e sembra morire dietro alla catena dei Sibillini, quel padre indica al figlio il monte fatato,
e avverte:
“Là, sul fianco sinistro della montagna; là – vedi? - c'è un cavaliere,
è Guerino, il cavaliere della Cerca, lui come tanti, come me,
ascende il monte della maga, chiede alla profetessa, cerca la propria via all'annunciatrice della Vergine. Cerca, cercando se stesso”.
E, mentre l'indice descrive e indica la montagna, risuona da ere lontane un corno, forse il corno di Boromir. E il corno sveglia, scuote
e chiama a raccolta, di nuovo e per sempre, questa nostra Compagnia.
Cioé: un altro mondo, un'altra gens, un altro ordine.
Perché “nessuno – dicono le storie d'un tempo – nessuno,
nonostante i disastri, nonostante l'usura, nonostante la barbarie,
potrà mai impedire al sole di sorgere di nuovo”.


Scritto da : Adolfo Leoni
06/01/2013
11:45


(http://www.informazione.tv/index.php?action=index&p=61&art=39830)


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